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Che differenza c’è?

478 319 Carlo Dr. Taiariol

ASPIRINA, ASPIRINETTA e CARDIOASPIRINA

In farmacia capita spesso di dover rispondere a domande solo apparentemente semplici e banali. Un esempio classico è: “ma che differenza c’è tra…?”

Rispondiamo qui proprio a questa domanda, focalizzandoci su tre specialità farmaceutiche: Aspirina, Cardioaspirina e Aspirinetta. Tre farmaci ed un solo principio attivo: l’Acido Acetil-Salicilico. Uno dei farmaci più antichi e conosciuti, vero capostipite della classe degli antinfiammatori non steroidei (FANS), con molteplici proprietà terapeutiche, la principale legata all’azione antinfiammatoria, dovuta all’inibizione della ciclossigenasi di tipo 2 (COX-2) responsabile della cascata infiammatoria. Altra proprietà terapeutica non trascurabile, correlata ad un effetto indesiderato della molecola stessa, è l’azione anti-aggregante (da non confondere con un’azione anti-coagulante). La differenza tra le tre specialità non va quindi ricercata nel principio attivo ma nel dosaggio:

  • L’Aspirina ha un dosaggio che arriva fino a 500 mg, superiore rispetto alle altre specialità; viene utilizzata e prescritta esclusivamente per la sua azione antinfiammatoria.
  • L’Aspirinetta è presente sul mercato ad un dosaggio pari a 100 mg. Ha attività prevalentemente anti-aggregante e fluidifica il sangue opponendosi alla formazione di trombi e coaguli in generale. Viene quindi utilizzata per prevenire il rischio di ictus o altre problematiche cardiovascolari.
  • La Cardioaspirina si differenzia dall’Aspirinetta non per il dosaggio, sempre 100 mg di principio attivo, ma dalla formulazione costituita da un rivestimento gastro-resistente. La compressa non si dissolve a livello gastrico bensì a livello intestinale e questo permette di ridurre l’attività gastrolesiva di questa classe farmaceutica.

Come comportarsi?

In caso di assunzione cronica o prolungata di queste specialità, bisogna porre attenzione soprattutto alla loro attività lesiva ai danni della mucosa gastrica. Proprio per questo è consigliato assumere tali farmaci in corrispondenza dei pasti e in caso non dovesse bastare, in accordo con il proprio medico si può combinare alla cura dei protettori gastrici (ad esempio i PPI, inibitori della pompa protonica). In contrapposizione a questo, recenti teorie suggeriscono l’assunzione di cardioaspirina la sera prima di coricarsi, poiché la maggior probabilità di insorgenza di eventi cardiovascolari è riscontrabile soprattuto al mattino (studio dell’American Hearth Association). Quando si assumono farmaci anti-aggreganti e anti-coagulanti bisogna prestare attenzione a ferite ed emorragie.

Come agisce l’aspirinetta?

L’Acido Acetilsalicilico già a bassi dosaggi è in grado di andare ad inibire la formazione di Trombossano A2 (TXA2), tramite un’azione specifica inibente dell’enzima ciclossigenasi. Il trombossano favorisce fisiologicamente l’aggregazione delle piastrine per modifica della loro struttura e forma. Venendo meno questa molecola, inibendo l’enzima che la produce, le piastrine non si aggregano più e quindi il sangue si fluidifica: l’acido acetilsalicilico determina una riduzione del 97-99% della sintesi piastrinica di TXA2 nei soggetti sani. Il trattamento prevede un dosaggio di 325 mg/die (approvato dalla FDA) per la profilassi primaria dell’infarto miocardico.

Il monitoraggio di questi farmaci viene effettuato ogni giorno da tutti i medici e farmacisti presenti sul territorio.

Effetto placebo e nocebo: il potere della mente.

630 354 Carlo Dr. Taiariol

Tutti o quasi tutti conoscono l’effetto placebo. Quando si prende una medicina priva di principio attivo, una medicina “finta”, un placebo, tuttavia ritenuta vera dal paziente, a volte quest’ultimo si sente meglio davvero. Questo è l’effetto placebo, spiegato in poche e semplici parole. Ma se il paziente dovesse sentirsi peggio? Questo è il caso dell’effetto nocebo. Meno conosciuto, si presenta come il manifestarsi degli effetti indesiderati del farmaco assunto, nonostante non possa essere la pastiglia stessa a causarli.

Da tempo si cerca di capire come funzionino da un punto di vista fisiologico l’effetto placebo e il suo opposto, il nocebo. Delle tante ricerche centrate sull’argomento fa parte un curioso esperimento le cui conclusioni sono appena state riportate su Science. I ricercatori si sono trovati di fronte ad una quanto mai singolare tesi. Si è osservato infatti che tanto più il placebo, ritenuto dal paziente un farmaco attivo, è costoso quanto più è probabile che insorgano effetti avversi, nocebo.

Lo studio è stato condotto su di una presunta crema, formulata per contrastare in modo efficace la dermatite atopica. Farmaco molto efficace (in realtà una semplice crema base) che tra gli effetti indesiderati annoverava un aumento della sensibilità al dolore.
Divisi i pazienti in due gruppi, ad uno si è fatto credere che il farmaco costasse molto, mentre all’altro che fosse molto economico. Il risultato ottenuto sicuramente risulta oltremodo strano. I ricercatori, dopo aver sottoposto i pazienti ad un tipico test sulla resistenza al dolore, hanno notato che chi ha utilizzato la crema “costosa” ha sviluppato anticipatamente dolore rispetto agli altri trattati con la versione “economica”. Questa differenza si spiega con la convinzione comune che un farmaco costoso in quanto tale abbia un azione più potente rispetto al farmaco economico.

Si è verificata quella che al senso comune appare una stranezza: i partecipanti che avevano usato la “crema costosa” hanno riportato di sentire dolore assai prima di chi aveva adoperato la lozione “economica”.

Come si spiega l’effetto nocebo dunque? Sambra coinvolta l’attivazione specifica di alcune aree, in particolare nella corteccia prefrontale. Questo circuito orchestrerebbe l’effetto nocebo e così il placebo. Portare il nostro sistema nervoso centrale ad aspettare un effetto, positivo o negativo che sia, porta così il nostro organismo a provarlo effettivamente. Uno studio che dimostra come la mente possa gestire il fisico.

Antibiotico resistenza: ciò che non uccide li fortifica

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Quando la penicillina fu introdotta a partire dagli anni 40 del novecento, rivoluzionò completamente la medicina. Prima gli ospedali erano pieni di pazienti con infezioni gravi a seguito di lievi ferite, successivamente, persone affette da malattie come polmonite e gonorrea, intrattabili con i vecchi farmaci, venivano curate senza difficoltà. Negli ultimi decenni, tuttavia, alcuni batteri hanno sviluppato resistenza a questi farmaci “miracolosi”. Ad oggi il CDC (Centers for Disease Control and Prevention) stima che sono almeno 23000 gli americani che muoiono ogni anno per infezioni dovute a batteri antibiotico resistenti. L’unico modo per contrastare questo fenomeno sarebbe lo sviluppo di nuove molecole, ma quasi tutte le compagnie farmaceutiche hanno smesso di provarci.

Un brillante futuro…

Dopo che la penicillina si dimostrò un efficace salvavita, le compagnie farmaceutiche concentrarono i loro sforzi per scoprire nuovi farmaci antibiotici. Dalla scoperta di Alexander Fleaming del 1928 fino agli anni 70 sono stati sviluppati 270 tipi diversi di antibiotici e fino al 1990 le 18 maggiori aziende erano impegnate nella ricerca e sviluppo di nuove molecole antibatteriche. Un futuro che faceva ben sperare, tuttavia nel corso degli anni la situazione è drasticamente mutata.
Ad oggi, solo 5 delle 50 migliori compagnie stanno sviluppando nuovi antibiotici, decisamente deludente se si pensa che secondo un’analisi del 2002, pubblicata da Clinical Infectious Diseases, sulle 506 molecole attive in sviluppo solo 5 appartengono alla classe antibatterica, e degli 89 farmaci che hanno raggiunto il mercato nessuno di essi appartiene a questa classe. Il vero problema è che non esiste un antibiotico nuovo dal 1984, problema più grande di quel che sembra poiché un batterio resistente ad uno specifico farmaco lo è anche per altri appartenenti alla stessa classe.

Perché le compagnie non si impegnano in nuove ricerche?

La risposta è semplice: i soldi. La scoperta di un nuovo antibiotico inizia con una ricerca basilare di organismi capaci di creare composti antibatterici, un processo che può includere lo screening di migliaia di campioni diversi. Una volta che i ricercatori individuano un possibile candidato, lo testano su diversi batteri e, se i risultati sono positivi, si procede con la produzione su larga scala. Dopo tutto ciò, esiste sempre la possibilità che ciò che si scopre non sia effettivamente un antibiotico. Ciò comporta il ritorno al punto di partenza. Escludendo questa eventualità quindi, se tutto dovesse procedere senza intoppi, la strada è ancora lunga: test clinici, approvazione da parte degli organi preposti, e infine l’immissione in commercio.
Di conseguenza, possono trascorrere più di 20 anni prima che un’azienda veda un profitto economico dopo la scoperta di un antibiotico, profitto solitamente scarso e di breve durata.

Cosa possiamo fare?

Il problema dell’antibiotico resistenza è serio e si sviluppa su scala globale. In attesa che anche i colossi farmaceutici si muovano nella risoluzione del problema, il CDC raccomanda che anche il paziente debba avere un ruolo attivo nella propria salute. Semplici accortezze da tener presente: accertarsi che il proprio dottore esegua gli esami necessari a garantire l’utilizzo dell’antibiotico corretto e non assumere antibiotici se non strettamente necessario, sempre su prescrizione. Se infine dovesse essere necessaria l’assunzione accertarsi di seguire la posologia e finire l’intera cura. Batteri sempre più forti e sempre meno armi per combatterli. Per contrastare questo problema, bisogna innanzitutto comprenderlo e capire le gravi conseguenze che avrà sul nostro futuro. L’uso degli antibiotici dovrà essere controllato sia dal personale sanitario che dal paziente, che con delle semplici accortezze può migliorare la propria salute e quella degli altri.

Colesterolo: facciamo un po’ di chiarezza

800 533 Carlo Dr. Taiariol

Sempre al centro di tutti i discorsi salutistici, il colesterolo sembra essere tra i peggiori nemici del corpo umano. La domanda da farsi è: “ma è realmente così?” “Dobbiamo evitare di assumere prodotti contenenti colesterolo?”

SI e NO

Iniziamo a capire cos’è: il colesterolo è un composto organico che fa parte della famiglia dei lipidi steroidei. A differenza di quanto si possa pensare, il suo ruolo negli organismi umani è di notevole importanza:

  • Infatti è un componente delle membrane cellulari, di cui regola fluidità e permeabilità e ne permette il giusto funzionamento;
  • È il precursore della vitamina D, dei sali biliari e degli ormoni steroidei, sia maschili che femminili (testosterone, progesterone, estradiolo, cortisolo ecc.) fondamentali per svolgere tutte le funzioni del corpo umano. 

Quando allora il colesterolo diventa deleterio?

Quando circola nel sangue in concentrazioni superiori alla norma si trasforma in un acerrimo nemico della nostra salute, provocando con il tempo seri danni.

Il colesterolo viene sia prodotto dal corpo umano (80%) sia assunto con gli alimenti (20%). Quindi dobbiamo cercare di assumerne ma in quantità misurate ed equilibrate. Quando le quote circolanti di colesterolo sono troppo alte, inizia ad accumularsi oltre che nel fegato (come è normale che sia) anche nelle pareti dei vasi sanguigni. Qui si accumula e con il tempo può formare dei veri e propri TAPPI o PLACCHE aterosclerotiche, che vanno incontro a ossidazione e si infiammano. Queste placche possono ostruire il normale circolo ematico o addirittura ostruirlo, provocando conseguenze molto gravi. 

È sempre importante perciò tenere sotto controllo i valori ematici di colesterolo:

  • COLESTEROLO TOTALE, non dovrebbe superare i 200 mg/dL 
  • LDL (colesterolo Cattivo perché si accumula nei vasi) non dovrebbe superare la quota di 160 mg/dL
  • HDL (colesterolo Buono perché trasporta il colesterolo presente nei vasi fino al fegato, dove viene depositato) non dovrebbe scendere al di sotto della quota di 45 mg/dL.

Nel caso in cui il colesterolo TOTALE o LDL siano troppo alti, si deve:

  • ridurre l’assunzione di alimenti ricchi in colesterolo e grassi 
  • praticare attività fisica costante
  • utilizzare farmaci o integratori che riducono la produzione endogena di colesterolo (famosissime sono le STATINE).

Se i vostri valori ematici sono alterati, consultate il vostro medico o il vostro farmacista di fiducia, che sapranno indicarvi la terapia più adatta alle vostre esigenze.

Probiotici: alcune utili informazioni

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Con il termine “probiotico” s’intende quel miscuglio di microrganismi, di solito batteri, buoni, che somministrati in grandi quantità, esercitano effetti benefici sull’intestino e sulla salute dell’ospite.
Questi batteri buoni che noi assumiamo interagiscono con i batteri buoni già presenti nella nostra flora batterica intestinale, che annovera più di 1000 specie diverse di microrganismi.

La nostra flora batterica o microbiota è fondamentale per:

  • L’estrazione di principi nutritivi dagli alimenti (importante la vitamina K);
  • Aiutare i processi metabolici;
  • Immunità e protezione contro batteri e virus patogeni (cattivi).

Come funzionano quindi i PROBIOTICI?

Versando migliaia e migliaia di nuovi batteri benefici nel corpo, questi vanno a ripopolare zone dell’intestino che si sono impoverite di questi batteri benefici a causa di infiammazioni o terapie antibiotiche. In questo modo quando un batterio, un virus o un fungo arrivano a livello delle pareti intestinali, non trovano spazio in cui insediarsi e proliferare e quindi non riescono a generare infezioni. Inoltre questi microrganismi producono acidi come l’acido lattico, il propionico o l’acetico, che abbassando il pH intestinale, inibiscono la proliferazione dei batteri patogeni. Un’altra importante funzione è la produzione di batteriocine, perossido d’idrogeno e biosurfattanti, che inibiscono la proliferazione di infezioni indesiderate.

Ma quando bisogna assumere questi prodotti?

Dopo pesanti terapie antibiotiche, la flora intestinale formata pur sempre da batteri, viene ridotta in numero. Specialmente se si usano antibiotici ad ampio spettro (come le penicilline) che quindi agiscono su più specie di batteri, compresi quelli buoni.

Oppure nel caso di malattie infiammatorie intestinali come il colon irritabile. In questi casi di calo delle difese, alcuni patogeni possono approfittarne e generare infezioni. Come ad esempio succede nel grave caso della Colite Pseudomembranosa da Clostridium difficile. In queste situazioni quindi possiamo utilizzare PROBIOTICI così come nel caso in cui siamo affetti da “influenza intestinale” di solito generata da rotavirus.

I PROBIOTICI però essendo batteri benefici vivi, risentono del pH acido dello stomaco e possono morire nel loro percorso per arrivare alle pareti intestinali. Per questo motivo vanno assunti durante o dopo i pasti, in modo che il cibo faccia da veicolo per attraversare alcune zone dell’apparato digerente che risulterebbero troppo acide e quindi aggressive per la sopravvivenza dei microrganismi.

Tra le varie specie di batteri come il Lactobacillus o il Bifidobacterium, si può annoverare la presenza di un lievito, il Saccharomyces Boulardii. Questo lievito al contrario degli altri batteri è resistente al pH acido e per questo motivo più efficace in tutti i trattamenti.

Ricapitolando i trattamenti:

  • influenza intestinale (assumere durante e dopo);
  • terapia antibiotica (assumere dopo);
  • infiammazioni intestinali;
  • prevenzione prima di partire per evitare intossicazioni alimentari.

Ricordiamo che l’assunzione prolungata può provocare stipsi, flatulenze e meteorismo.
Inoltre andrebbero utilizzati con cautela in pazienti con febbre alta, immunodepressi, pazienti in trattamenti antitumorali o che soffrono di alterazione della barriera epiteliale intestinale.

F: il fluoro nel dentifrico

380 426 Carlo Dr. Taiariol
Spazzolino, filo interdentale e collutorio sono le armi utilizzate tutti i giorni per far rimanere i nostri denti puliti e in salute, ma dove andremmo senza l’utilizzo del dentifricio?

È stato dimostrato che l’utilizzo di dentifricio paragonato ad un dentifricio placebo, abbia ridotto del 33% la comparsa di problemi dentali come le carie. Oggi presenti in tutti i colori e tutti i sapori possibili, le paste dentifrice, così chiamate tecnicamente, risultano essere il principale strumento di lotta quotidiano contro la placca batterica. Naturalmente bisogna sempre abbinare uno giusto spazzolamento, un tempo prolungato di pulizia e un buon risciacquo.

Circa il 90-95% delle preparazioni dentifrice sono impreziosite di fluoro, ma perché?

Il fluoro è un minerale che aiuta a prevenire le infezioni dentali (prime fra tutte la carie) rallentando la distruzione dello smalto dentale ed incentivando nel contempo la sua rimineralizzazione.
Penetrando negli strati più superficiali dello smalto, il fluoro si lega agli ioni calcio che costituiscono l’idrossiapatite, uno dei principali costituenti minerali di ossa e denti. In questo modo, il fluoro rende lo smalto dentale più forte e resistente allo sfaldamento operato dagli acidi della placca batterica presenti nel cavo orale. Ovviamente il fluoro viene utilizzato nella sua forma solubile, ovvero sottoforma di sali (come il floruro di sodio e il floruro stannoso).

Le concentrazioni di fluoro però non possono essere eccessive e per questo motivo l’Unione Europea ha vietato l’immissione sul mercato di dentifrici contenenti una quantità di fluoruro superiore a 1500 ppm.
Nei bambini fini ai 7 anni si deve preferire un dentrifricio defluorizzato che non provochi danni in caso di ingestione. Poiché un’iperdosaggio di fluoro nella dieta del bambino può condurre alla fluorosi, una sindrome clinica-patologica caratterizzata da alterazioni della cromia dello smalto (i denti si macchiano), modificazioni funzionali dello smalto che, nei casi più gravi, possono provocare un progressivo irrigidimento delle ossa fino a deformare lo scheletro. L’ingestione frequente di fluoro durante i primi sette anni di vita rischia di decolorare progressivamente i denti permanenti. I dentifrici per bambini (fino all’età di 6 anni) non devono contenere una concentrazione di fluoro superiore ai 500-600 ppm.

Smagliature come si presentano e come si trattano

920 574 Carlo Dr. Taiariol
Le smagliature chiamate tecnicamente “strie distensae o strie atrofiche”, sono degli inestetismi cutanei di solito di natura irreversibile.
È un problema che colpisce ambo i sessi, anche se le donne ne soffrono in percentuale maggiore a causa di fenomeni di stress cutaneo come la gravidanza o dell’elevata produzione di estrogeni nel sesso femminile. Gli estrogeni, principali ormoni steroidei femminili, come si è visto, hanno un’azione negativa sulla sintesi di collegene cutaneo, responsabile dell’elastcità della pelle.

Semplicemente, le smagliature sono quelle striscioline lievemente infossate e di colore rosso-violaceo, che si localizzano elettivamente alla superficie interna delle cosce, alla parte esterna delle regioni glutee, ai fianchi, al seno e al ventre.

Il meccanismo di formazione sembra interessare alcuni ormoni, come il cortisolo, che influiscono negativamente sull’elasticità della cute. Infatti alti livelli di questo ormone andrebbero ad inibire l’azione dei fibroblasti, responsabili della formazione delle fibre di collagene. Queste fibre sono presenti nei tessuti per donare elasticità e distensione. La riduzione di questi filamenti unita ad uno stimolo meccanico (aumento di peso, gravidanza ecc ecc) “straccia” i tessuti più superficiali, provocando la tipica formazione della stria che nella fase iniziale di formazione (fase infiammatoria) si presenta di colore rossastro (striae rubrae) a causa del processo infiammatorio e successivamente assume un colore bianco perlaceo (fase terminale/atrofica).

CAUSE:

  • carenza di proteine (come il collagene);
  • squilibri ormonali durante l’età adolescenziale, la menopausa, i periodi di stress (si verifica un aumento nella produzione di cortisolo che inibisce i fibroblasti che non producono più proteine);
  • gravidanza;
  • diete ferree ( rapida perdita di peso);
  • sovrappeso e obesità;
  • utilizzo di corticosteroidi (effetto iatrogeno);
  • utilizzo di steroidi anabolizzanti;
  • malattie come la sindrome di Cushing.

I rimedi sono principalmente quelli di tipo preventivo. È necessario infatti bere molta acqua per mantenersi idratati e utilizzare creme e oli che nutrono dall’esterno la cute.

Altri rimedi possono essere la laser terapia, il peeling chimico oppure l’utilizzo di creme a base di tretinoina, un derivato della vitamina A che aiuta la ricostruzione del collagene, non a caso questo principio viene utilizzato anche contro le rughe e l’acne. Oltre ad essere sconsigliate alle donne in gravidanza, queste creme hanno scarso effetto sulle smagliature di vecchia data, che vanno incontro a cicatrizzazione.

Ricorda per le smagliature la tempestività è assolutamente fondamentale.

Ace-inibitori e alimentazione

1020 560 Carlo Dr. Taiariol

Gli ACE-inibitori sono una classe di farmaci tra i più venduti in assoluto e trovano impiego primario nel trattamento dell’ipertensione arteriosa, uno stato di pressione particolarmente elevata nei vasi arteriosi, una delle prime patologie del mondo Occidentale. Lo stile di vita è fondamentale, infatti tra le varie cause vi sono uno stile di vita sedentario, il peso eccessivo e obesità, lo stress, il fumo ed eccessive quantità di alcol o sale nella dieta. Gli Ace inibitori oltre che nell’ipertensione, trovano utilizzo anche nel trattamento del post-infarto del miocardio e dell’insufficienza cardiaca cronica.

Un po’ di storia: scoperta e funzionamento.

Gli ACE-inibitori sono stati per la prima volta messi in evidenza nel veleno del serpente brasiliano Bothrops jararacadella . Un grandissimo lavoro di ricerca è iniziato da un peptide trovato nel veleno di questa specie nel 1965 dallo scienziato brasiliano Sérgio Henrique Ferreira, negli anni a seguire la molecola che è stata progettata su questa ispirazione è il Captopril.
Gli Ace Inibitori agiscono come inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE, ossia Angiotensin Converting Enzyme), che fa parte di una cascata regolatrice della pressione arteriosa (sistema renina-angiotensina-aldosterone).
I Farmaci di questa classe più noti ed impiegati nella pratica terapeutica sono il captopril, l’enalapril, il lisinopril, perindopril e il ramipril.

E’ bene però sapere che gli ACE-inibitori possono interagire con i cibi

Gli ACE-inibitori possono aumentare i livelli di potassio nel nostro corpo e portare all’iperkaliemia (livelli eccessivi di potassio nel sangue). Nelle cellule cardiache l’aumento della concentrazione di potassio extra-cellulare diminuisce la negatività del potenziale di riposo della cellula cardiaca, depolarizzandola in parte. Di conseguenza diminuisce anche l’intensità del potenziale d’azione, questo fa sì che la contrazione del cuore sia via via più debole. Dato che le forme più gravi di iperkaliemia possono causare ritmo cardiaco irregolare, palpitazioni, fino a effetti cardiaci e neuromuscolari fatali, come l’arresto cardiaco e la paralisi dei muscoli respiratori, il nostro corpo deve riuscire a mantenere i livelli di potassio in equilibrio. Quando si assumono ACE-inibitori è bene mantenere una dieta povera di potassio, l’utilizzo concomitante di diuretici insieme gli ACE-inibitori può aumentare i livelli di potassio nel sangue.

I cibi che contengono potassio e che possono quindi interagire con gli ACE-inibitori nel rischio di iperkaliemia sono banane , arance , patate , il sale da cucina contenente potassio (si può sostituire con altre correttori di sapore o spezie in commercio.

Perciò quando è consigliato assumere gli ACE-inibitori?

  • Il Perindopril assunto con un po’ d’acqua in una dose singola giornaliera al mattino prima della colazione-
  • Il Captopril almeno 1 ora prima dei pasti.
  • L’assunzione di Ramipril, Enalapril e Lisinopril può avvenire insieme o lontano dai pasti.

BCAA aminoacidi ramificati la loro importanza

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AMINOACIDI RAMIFICATI

Gli aminoacidi sono i costituenti principali delle proteine e sono indispensabili per la crescita, lo sviluppo e il mantenimento muscolare. Infatti gli aminoacidi assunti con la dieta o prodotti dall’organismo umano hanno un ruolo quasi del tutto strutturale, solo secondariamente energetico.

Ma gli sportivi e i culturisti assumono aminoacidi ramificati. Cosa sono ? E Perché vengono assunti ?

Gli aminoacidi ramificati, tutti essenziali (il nostro corpo non è in grado di sintetizzarli, quindi vanno assunti con l’alimentazione) sono costituiti da:

  • LEUCINA: promuove la sintesi proteica nei muscoli e nel fegato, rallenta la decomposizione delle proteine muscolari e promuove i processi di rigenerazione.
  • ISOLEUCINA: fondamentale per la formazione di emoglobina, viene principalmente metabolizzata nel tessuto muscolare.
  • VALINA: utilizzata nell’organismo per la produzione di energia da alimenti molto proteici o per mobilitare riserve proteiche endogene.

Questi aminoacidi compongono il 35% degli aminoacidi presenti nel muscolo e sono presenti in alimenti come pollo, manzo, latte, legumi, bresaola e parmigiano. Sono definiti ramificati per via della loro struttura che forma delle ramificazioni e fanno parte dei 9 aminoacidi essenziali.

Il vantaggio nella loro assunzione è che non vengono metabolizzati come gli altri aminoacidi a livello epatico. Infatti nel fegato non è presente l’enzima BCAA amino-trasferitasi, che è invece abbondante a livello muscolare. Quindi queste molecole una volte ingerite arrivano direttamente a livello muscolare.

Ma quali sono le loro proprietà?

  1. Un buon livello di aminoacidi ramificati nel sangue riduce la quantità di triptofano, (amminoacido essenziale, intermedio di diverse reazioni chimiche) che arriva al cervello e quindi riduce il senso di fatica.
  2. Prevengono il danno muscolare dovuto all’esercizio fisico
  3. Alcuni cataboliti della LEUCINA come l’HMB sono importanti per stimolare la sintesi proteica.

Questi integratori hanno una assunzione frazionata nel pre-allenamento e nel post-allenamento con diversi effetti sull’organismo umano. I rapporti di aminoacidi che trovate in commercio sono:
-2:1:1
-4:1:1
-8:1:1

La LEUCINA è presente sempre in quantità maggiori rispetto agli altri due aminoacidi, infatti alcuni studi hanno rilevato come  l’assunzione di BCAA arricchiti con leucina (in rapporto 4:1:1) elevano e prolungano la sintesi proteica dopo l’allenamento coi pesi. Utile specialmente nelle discipline ad alta intensità. Le evidenze scientifiche mettono in luce che la supplementazione di BCAA riesce ad enfatizzare la sintesi proteica fino a 24 ore dopo un allenamento coi pesi alla massima fatica.

Alcune precauzioni da tenere in considerazione nell’utilizzo corretto dei BCAA

  •  I livelli giornalieri non dovrebbero superare i 5 g in somma dei tre
  • Non assumere in gravidanza o nei bambini
  • Farsi seguire sempre nell’assunzione
  • Non assumere se si soffre di insufficienza renale o di sclerosi laterale amiotrofica.

Curcuma e zenzero: alternative ai FANS

480 308 Carlo Dr. Taiariol

In Europa il 19% degli adulti soffre di dolori cronici di media-grave intensità e il 40% denuncia l’inadeguatezza del trattamento seguito. Spesso per il dolore ci si rivolge agli antinfiammatori non steroidei (FANS). Ma, dati i numerosi effetti indesiderati a lungo termine (tra cui le lesioni alla mucosa gastrointestinale, responsabili di dispepsia, ulcere, emorragie e perforazioni, e la nefrotossicità) la richiesta di trattamenti più sicuri per tenere sotto controllo il dolore cronico risulta in costante aumento.

Curcuma e Zenzero

La curcuma (Curcuma longa) e lo zenzero (Zingiber officinale) appartengono alla famiglia delle Zingiberacee e hanno catturato l’attenzione degli scienziati per i loro effetti antinfiammatori. Diversi studi ne hanno confermato i benefici nelle malattie croniche come l’artrosi e la poliartrie reumatoide.

Il componente dotato di maggiore bioattività della curcuma è un polifenolo chiamato curcumina. La curcumina deve le sue proprietà antinfiammatorie al fatto di determinare una regolazione in senso discendente della ciclossigenasi 2 (COX2).

la scala del dolore

Una metanalisi, realizzata secondo i criteri della Cochrane Library e delle linee guida PRISMA, ha analizzato il ruolo degli estratti nel dolore cronico. Tutti gli studi facenti parte della metanalisi sono randomizzati, in doppio cieco, con controllo a placebo e utilizzano la medesima Scala Visiva Analogica per misurare il livello il livello di dolore sperimentato dal paziente. Nelle ricerche si erano utilizzati dei dosaggi di 300-2000 mg di estratto al giorno senza tuttavia tener conto di eventuali tecniche che permettessero di aumentare la biodisponibilità. Vi sono 4 gruppi di pazienti:

  • malati di artrite,
  • malati affetti da dolori cronici,
  • pazienti con dismenorrea primaria,
  • persone in convalescenza in seguito a un intervento chirurgico.

La metanalisi dimostra che gli estratti di curcuma favoriscono una riduzione significativa delle sensazioni dolorose in tutti i gruppi di pazienti. Secondo gli studi, sembra che gli estratti di curcuma più concentrati in dosaggi bassi abbiano un impiego sicuro.

Il dolore cronico e come trattarlo

Il dolore cronico è un sintomo che compare molto frequentemente in numerose patologie, e può avere notevole impatto sulla qualità della vita. Spesso i FANS non portano il sollievo auspicato a causa anche di numerosi effetti indesiderati. Gli estratti di curcuma e zenzero evidenziano migliori risultati negli studi, vantano buoni profili di sicurezza e rappresentano dunque la soluzione ideale a lungo termine per mantenere il dolore sotto controllo.

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